lunedì 4 aprile 2011

Biennio 4. Iconografia del contemporaneo: Michal Rovner o l’identità negata/Creative industries

Accademia di Belle Arti in Venezia
STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA




a) Michal Rovner



Michal Rovner gioca con l’iconografia in modo molto sottile, magistrale. Le sue immagini sono concepite in modo da creare da un lato un preciso riferimento visivo a repertori d’immagini ben noti (soldati contemporanei nel deserto, reclusi in un campo di prigionia), ma escludendo nello stesso tempo gli elementi che potrebbero precisare l’identificazione, impedendoci di riferire l’immagine a un luogo o a un momento ben definiti nel tempo.
Nata in Israele nel 1957, Rovner ha studiato cinema, televisione e filosofia all’università di Tel Aviv e si è laureata in arti visive all’Accademia Bezalel. Nel 1978, ha fondato insieme con il suo fidanzato la Camera Obscura Art Scool a Tel Aviv per studi nel campo del cinema, del video e della computer art. Per parecchi anni ha sviluppato la ricerca artistica a margine della sua attività di fotogiornalista e fotografa pubblicitaria; ma alla fine degli anni ’90, con opere come

*1. Overhanging (1999), installazione video

la sua poetica visiva, basata su un raffinato uso dell’immagine sfocata, ambigua, e dei contrassegni iconografici, comincia a prendere dei connotati precisi.
Concepita in un periodo in cui l’artista si era trasferita da poco da Israele a New York e seguiva in televisione i resoconti della guerra del Golfo, Overhanging ha per tema l’ambivalenza dell’immagine e il dubbio margine di verità che hanno i resoconti televisivi in generale.
Su una serie di venti schermi, posti su due file affrontate, Rovner fa scorrere le immagini di due distinte situazioni: una tempesta di neve a New York e una di sabbia nel deserto di Israele, entrambe filmate non direttamente, ma davanti allo schermo del televisore. Le due serie contrappongono, fino a confonderli e a renderli identici, gruppi di figure in difficoltà, resi indistinti dalle condizioni atmosferiche, anonime immagini di esseri umani in lotta e in pena.
Proprio su quest’opera, esposta nella prima importante restrospettiva di metà carriera della Rovner, al Whitney Museum nel 2002, si appuntarono delle critiche: le sue figure di soldati nel deserto, volutamente indistinte, cancellavano i contrassegni di nazionalità non permettendoci di capire se quelle figure in lotta erano “i nostri” o gli altri, quelli da amare da amare o quelli da odiare.
Chiamata a rappresentare Israele alla Biennale di Venezia del 2003, con la sua monografica Against order? Against disorder? Rovner alzò il tiro, chiarendo coraggiosamente che quella era esattamente la sua intenzione: con un memorabile gruppo di opere nuove, tematicamente collegate tra loro, mostrò immagini riferibili a campi di prigionia, allo sterminio, all’olocausto, ma rimuovendo ancora una volta i contrassegni che avrebbero potuto ancorare quelle immagini a un momento storico preciso e ben individuato. In tal modo, le immagini alludono non alle sofferenze di un popolo particolare in un determinato momento storico, ma a qualcosa di più inatteso, e se possibile, ancora più inquietante: al mostro dell’oppressione, sempre in agguato, non confinato in modo rassicurante nel passato, ma vivo e temibile oggi come un tempo, forse attivo ancora, in qualche luogo, nel tempo presente.
Il video all’ingresso del padiglione, che annunciava il tema dell’intera mostra, faceva soffermare il pubblico a lungo. Mostrava un gruppo d’uomini che camminavano in circolo, come nei luoghi di prigionia di ogni tempo. Lo sfondo, di un bianco abbacinato, poteva sembrare di neve, e qualcosa nel taglio dei lunghi pastrani di quelle figure sfocate e indefinite poteva ricordare gli anni ’30 o ’40, ma solo molto vagamente. Ed erano poi veramente prigionieri? Non c’erano sorveglianti in vista, e ogni tanto qualche figura si staccava dal circolo e si allontanava, mentre gli altri continuavano il loro monotono percorso in cerchio. Appesi alle altre pareti della sala, alcuni still da video mostravano lo stesso cerchio di figure ripreso dall’alto. Al piano di sopra, il visitatore trovava la vera, forte sorpresa: dei tavoli in penombra, su cui erano disposti dei contenitori circolari in vetro simili alle capsule da coltura usate nei laboratori. All’interno delle capsule, file di minusoli uomini ripresi dall’alto formavano gli strani cerchi, le spirali, le catenelle che abbiamo visto molte volte annodarsi e snodarsi nei documentari scientifici che mostrano la vita dei microrganismi.
Quest’opera,
*2. Data Zone, 2003, videoinstallazione
era un vero choc: esseri umani come batteri? Messi da qualcuno a quest’abissale distanza visuale che li rende esseri minuscoli, insignificanti, usabili per gli esperimenti?
Sul fondo delle capsule, gli omini minuscoli come batteri continuavano a comporre e scomporre le loro indecifrabili figure.
Ora noi sappiamo che questo è realmente accaduto, che in uno dei momenti più scuri del XX secolo e dell’intera storia umana qualcuno ha davvero trattato altri uomini in questo modo, li ha distanziati a una profondità abissale, li ha visti come esseri infimi, li ha usati per esperimenti. Ma questa installazione video di Michal Rovner, non mostrando alcun connotato d’epoca e di luogo, lascia adito a dubbi: chi mette sotto il microscopio chi? Chi è l’oppressore e chi è l’oppresso in questo momento, nelle guerre del presente?
Nell’installazione della stanza successiva,
Time Left, 2000, videoinstallazione
le pareti erano interamente ricoperte da file orizzontali sovrapposte di minuscoli omini che marciavano verso una meta indefinita, ordinati e indecifrabili. Con una eccezionale economia di mezzi, Rovner riusciva a suscitare un grande senso di mistero.

Dal catalogo della Biennale 2003:

Commissario e Curatore: Mordecai Omer
Commissari aggiunti: Diana Shoef, Arad Turgeman
Artista: Michal Rovner

Il tempo rimasto 
“Nel padiglione israeliano presentiamo due videoinstallazioni di Michal Rovner. Il progetto di Time left presenta file orizzontali di figure nere contro uno sfondo scuro. Sovrapposte dal pavimento al soffitto lungo le quattro pareti, queste immagini suggeriscono una forma di testo e somigliano a geroglifici egiziani o a una sezione dei manoscritti del Mar Morto. Le immagini seguono un passo lento e ripetitivo, in cui c'è movimento ma non si vede progressione”. 
“Michal Rovner ha eseguito le riprese per la sua opera in Russia, Romania e Israele. Per gli spettatori, il luogo dov'è stato ripreso il video non è né evidente né importante al fine di leggere l'opera, ma comunque, i luoghi sono stati accuratamente selezionati da Rovner come punto di partenza per creare la sua ambientazione”.
“Nelle sue opere precedenti, Rovner conduceva una ricerca sul significato dei confini e il loro attraversamento incerto. Qui individua un suo testo linguistico creato attraverso il video. Nelle sue opere precedenti, il video stabiliva un dialogo con i valori della pittura, un testo linguistico difficile da decifrare. Pur in assenza di un avanzamento o un cambiamento, dove tutto rimane uguale in uno stato di flusso permanente, lo spettatore è immerso in una tensione che non lo lascia per tutta la durata dello spettacolo”.
“Quanto all'opera recente di Rovner, Data zone, questa si può leggere come ricerca intensa sulle dinamiche e le energie umane. È una ricerca scientifica, che sonda la cavia umana al suo livello più fisico e molecolare, rimandando a fenomeni quali la clonazione. Ma al tempo stesso indaga sulla psiche umana e lo stato mentale dell'essere”.
Mordecai Omer

Michal Rovner si considera un'artista nomade, il cui percorso inizia in Israele negli anni Ottanta, ma l'affermazione sulla scena artistica internazionale avviene nei primi anni Novanta, dopo il trasferimento a New York, che rimane tuttora la sua "seconda base" dopo la sua casa nel deserto nei pressi di Tel Aviv. 
Il costante spostamento caratterizza non solo il suo percorso personale ma anche il suo modo di lavorare, che è un continuo passaggio tra mezzi e tecniche diversi: fotografia, video e cinema. 
Il "nomadismo", lo "spostamento" nelle zone di confine e nei territori incerti sono i temi che affronta e che danno una forte impronta all' immaginario visivo che crea. E' un immaginario popolato da figure dai lineamenti spesso irriconoscibili, ombre e sagome umane e animali, che evocano atmosfere che possono sembrare estremamente poetiche e drammatiche allo stesso tempo. Queste zone di confine sono per la Rovner i luoghi dove si è più consapevoli della fragilità dell'esistenza umana, il tema centrale del suo lavoro, ed è per questo che le figure appaiono prive di un'identità definita, in modo da sembrare più universali e vicine a tutti. 

Michal Rovner ha esposto in Italia presso la Galleria Stefania Miscetti di Roma

http://www.studiostefaniamiscetti.com/artist_bio.php?id=10






http://www.youtube.com/watch?v=lXX9xrDJt-8&feature=related
In opere successive, l’allusione al cammino dell’uomo nel mondo come un’arcana scrittura si precisa: in Stones, Rovner presenta in bacheche di vetro, simili a quelle dei musei, delle pietre su cui gli omini in fila si muovono scorrendo e appaiono simili ai segni di una misteriosa, indecifrata scrittura.
Altre opere:
4. In Stone:
www.pacewildenstein.com
http://www.youtube.com/watch?v=ibLfFyOqcjc
5. Makom II
http://www.youtube.com/watch?v=SHwAc51r5F0&feature=related
*6. Untitled, dalla serie Outside, 1991
http://www.corcoran.org/collection/highlights_main_results.asp?ID=118
http://www.metmuseum.org/search/iquery.asp?datascope=all&command=text&attr1=%22Rovner%22

Bibliografia:


BEDARIDA, Partecipazione israeliana alla cinquantesima Biennale di Venezia, www.archimagazine.com/rbeda.htm, pagg. 3/7
Sogni e conflitti/La dittatura dello spettatore, %=.ma Esposizione internazionale d’arte “La Biennale di Venezia”, a cura di Francesco Bonami, Marsilio Editore, 2003, pagg.348-349
G.VALLESE, Rovner, “Arte ”, gennaio 2003




b) Presentazione del libro
Creative Industries, di John Hartley, Blackwell, 2005.
http://books.google.it/books?id=dKytfKUptrMC&dq=hartley+creative+industries&source=gbs_summary_s&cad=0
Messa a fuoco sull’articolo di Henry Jenkins, Games: The New Lively Art.
Jenkins paragona il fenomeno attuale dei videogames, ancora immaturo artisticamente per molti versi ma carico di qualità innovative rivoluzionarie, all’irrompere delle nuove arti quali il cinematografo e il teatro di varietà all’inizio del ‘900, e cita dai numerosi manifesti di Filippo Tommaso Marinetti sul Teatro Futurista creando un parallelo convincente. Altro riferimento per Jenkins è Seldes, il Marinetti americano, le cui analisi sui mezzi innovativi degli anni ’20, dalla radio al fumetto al vaudeville, sono presentate nel saggio Seven Lively Arts del 1924.

Seldes, Seven Lively Arts, ipertesto:
http://xroads.virginia.edu/~HYPER/SELDES/cover.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Creative_industries











Dal catalogo

Commissario e Curatore: Mordecai Omer
Commissari aggiunti: Diana Shoef, Arad Turgeman
Artista: Michal Rovner

Il tempo rimasto 
Nel padiglione israeliano presentiamo due videoinstallazioni di Michal Rovner. Il progetto di Time left presenta file orizzontali di figure nere contro uno sfondo scuro. Sovrapposte dal pavimento al soffitto lungo le quattro pareti, queste immagini suggeriscono una forma di testo e somigliano a geroglifici egiziani o a una sezione dei manoscritti del Mar Morto. Le immagini seguono un passo lento e ripetitivo, in cui c'è movimento ma non si vede progressione. L'esperienza dove la stanza intera circonda lo spettatore mentre le linee, le file e le parole aleggiano insieme nella forma di una carta o di un testo è tra movimento e stasi. L'opera di Rovner è come un film senza inizio e senza fine. Nonostante la sua proiezione da diversi punti d'origine, l'effetto è unitario senza giunture. Ha una continuità perfetta. La riduzione dei particolari dà all'opera una potenza grafica nella quale le immagini sono spogliate di qualsiasi identità e non presentano alcun riferimento a un luogo o a un tempo.

(...) Michal Rovner ha eseguito le riprese per la sua opera in Russia, Romania e Israele. Per gli spettatori, il luogo dov'è stato ripreso il video non è né evidente né importante al fine di leggere l'opera, ma comunque, i luoghi sono stati accuratamente selezionati da Rovner come punto di partenza per creare la sua ambientazione.

Come artista israeliana che vive in America e crea la sua arte da immagini riprese in Israele, in Russia e in altre parti del mondo, Rovner attraversa le frontiere nazionali e crea ciò che ella chiama "nuove realtà" da nazioni e situazioni politicamente esplosive.

Si tratta di un testo sull'umanità, pieno allo stesso tempo della presenza e dell'assenza di persone. C'è un vuoto. L'installazione è basata sui contrasti fra la luce e l'oscurità e rivela la tensione fra i valori fondamentali e le condizioni esistenziali della nostra sopravvivenza.

Nelle sue opere precedenti, Rovner conduceva una ricerca sul significato dei confini e il loro attraversamento incerto. Qui individua un suo testo linguistico creato attraverso il video. Nelle sue opere precedenti, il video stabiliva un dialogo con i valori della pittura, un testo linguistico difficile da decifrare. Pur in assenza di un avanzamento o un cambiamento, dove tutto rimane uguale in uno stato di flusso permanente, lo spettatore è immerso in una tensione che non lo lascia per tutta la durata dello spettacolo.

Quanto all'opera recente di Rovner, Data zone, questa si può leggere come ricerca intensa sulle dinamiche e le energie umane. È una ricerca scientifica, che sonda la cavia umana al suo livello più fisico e molecolare, rimandando a fenomeni quali la clonazione. Ma al tempo stesso indaga sulla psiche umana e lo stato mentale dell'essere.
Mordecahi Omer

Michal Rovner si considera un'artista nomade, il cui percorso inizia in Israele negli anni Ottanta, ma l'affermazione sulla scena artistica internazionale avviene nei primi anni Novanta, dopo il trasferimento a New York, che rimane tuttora la sua "seconda base" dopo la sua casa nel deserto nei pressi di Tel Aviv. 
Il costante spostamento caratterizza non solo il suo percorso personale ma anche il suo modo di lavorare, che è un continuo passaggio tra mezzi e tecniche diversi: fotografia, video e cinema. 
Il "nomadismo", lo "spostamento" nelle zone di confine e nei territori incerti sono i temi che affronta e che danno una forte impronta all' immaginario visivo che crea. E' un immaginario popolato da figure dai lineamenti spesso irriconoscibili, ombre e sagome umane e animali, che evocano atmosfere che possono sembrare estremamente poetiche e drammatiche allo stesso tempo. Queste zone di confine sono per la Rovner i luoghi dove si è più consapevoli della fragilità dell'esistenza umana, il tema centrale del suo lavoro, ed è per questo che le figure appaiono prive di un'identità definita, in modo da sembrare più universali e vicine a tutti. 

9-12), Tavole dalla serie Co-existence 2, 2002. Pigmento puro su carta, 56 x 75 cm. Ed. 1 di 5.
Londra, Stephen Friedman Gallery


Bibliografia:


R. BEDARIDA, Partecipazione israeliana alla cinquantesima Biennale di Venezia, www.archimagazine.com/rbeda.htm, pagg. 3/7
G.VALLESE, Rovner, “Arte ”, gennaio 2003

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