lunedì 26 maggio 2014

TRIENNIO Patricia Piccinini, Ron Mueck, Michal Rovner

a) Patricia Piccinini


www.patriciapiccinini.net


Nata nel 1965 in Sierra Leone da famiglia di origine italiana, vive dal 1972 a Melbourne. Al padiglione australiano alla 50.a Biennale di Venezia, 2003, ha presentato la mostra We are family, immaginario ambiente domestico di un futuro prossimo dove cloni e mutanti coabitano con un’umanità che li accetta, con nostra sorpresa, senza le angosce che contraddistinguono l’attuale dibattito sull’ingegneria genetica e la bioetica. Nella messa in scena simbolica di We are family, questi mostri che spaventano e disgustano gli adulti sono invece accettati con curiosita’ e affetto dai bambini, con la loro caratteristica mancanza di preclusioni verso il nuovo.

*1. Composizione con cellule staminali, 2002. Silicone, acrilico, capelli umani.

*2. The young family, 2002. Silicone, acrilico, capelli, cuoio, legno.



Gran parte del lavoro della Piccinini si impernia sul rapporto dell’umanita’ contemporanea col nuovo, un nuovo che spesso crea angoscia ed e’ invece visto dall’artista con simpatia e ironia affettuosa, senza satira moralistica e senza catastrofismo.
Alcuni lavori prendono in considerazione situazioni limite create dalla tecnologia e dalla scienza nella civilta’ presente, che non hanno alcun paragone possibile nel passato e con cui di conseguenza dobbiamo inventare di volta in volta il nostro modo di rapportarci.

Il sex-appeal dell’inorganico e lo strano rapporto affettivo che lega l’uomo alle macchine caratterizzano ad esempio i progetti Truck babies (“Cuccioli dei camion”), Car nuggets (‘Pepite di automobili”), e Sheen (“Lucentezza”).

*3. Patricia Piccinini, Truck Babies (“Cuccioli dei camion”), 1999.
Fibra di vetro, pittura da automobili, parti elettriche, 2 pezzi, ciascuno 120 x 184 x 88 cm.

4., 5. Patricia Piccinini, Big Sisters, Serie di video.

*6. , 7. Patricia Piccinini, Car nuggets, fibra di vetro e pittura da automobili, ca cm 100 x 100.

Siren Mole (“Talpa sirena”) e’ invece un animale inesistente, che grazie all’animazione digitale diventa una scultura tridimensionale, dotata di movimento. Vedendolo in un filmato girato in uno zoo, del tutto simile ai documentari di divulgazione scientifica della televisione, ci rendiamo conto di quanto siano labili i rapporti tra finzione realta’ nel nostro mondo mediatico.

*8. Siren Mole: Excellocephala Parthenopa, 2000, scultura animatronics, ca. cm 100 x 100.

Animatronics:
http://video.google.it/videosearch?hl=it&q=animatronics&um=1&ie=UTF-8&ei=AiGsScCiMY6c1QXl_MC1Ag&sa=X&oi=video_result_group&resnum=4&ct=title

Piu’ che nelle singole opere, il senso delle “sculture” della Piccinini si manifesta nei progetti di cui esse fanno parte, complessi comprendenti fotografie, sculture, installazioni, e video, dove diviene meglio evidente il suo rapporto col mondo dei videogiochi, del cinema d’animazione, dei centri commerciali e dei parchi tematici, e piu’ in generale con le iconografie create dal mondo della comunicazione di massa, dalla pubblicita’ ai cartoni animati al film alla divulgazione scientifica.
Quasi senza eccezione, i lavori della Piccinini sono opere non autografe nel senso tradizionale del termine, poiche’ alla loro esecuzione hanno contribuito tecnici dei sistemi digitali, degli animatronics e degli effetti speciali, o artigiani specializzati di ambiti extraartistici (ad esempio, verniciatori di carrozzerie di auto e moto).

9. Nest (2006), edition 2/3.
Fibreglass, automotive paint, cycle parts. 90x150x170cm
Image 1 of 4

10. Thicker Than Water (2007), edition 2/6.
Fibreglass, automotive paint. 70x45x58cm

11. The Stags (2008), edition 1/3.
Fibreglass, automotive paint, cycle parts. 224x167x196cm
Image 2 of 3

b) Patricia Piccinini







Patricia Piccinini, www.patriciapiccinini.net, nata nel 1965 in Sierra Leone da famiglia di origine italiana, vive dal 1972 a Melbourne. Al padiglione australiano alla 50.a Biennale di Venezia, 2003, ha presentato la mostra We are family, immaginario ambiente domestico di un futuro prossimo dove cloni e mutanti coabitano con un’umanita’ che li accetta, con nostra sorpresa, senza le angosce che contraddistinguono l’attuale dibattito sull’ingegneria genetica e la bioetica. Nella messa in scena simbolica di We are family, questi mostri che spaventano e disgustano gli adulti sono invece accettati con curiosita’ e affetto dai bambini, con la loro caratteristica mancanza di preclusioni verso il nuovo.

*1. Composizione con cellule staminali, 2002. Silicone, acrilico, capelli umani.

*2. The young family, 2002. Silicone, acrilico, capelli, cuoio, legno.



Gran parte del lavoro della Piccinini si impernia sul rapporto dell’umanita’ contemporanea col nuovo, un nuovo che spesso crea angoscia ed e’ invece visto dall’artista con simpatia e ironia affettuosa, senza satira moralistica e senza catastrofismo.
Alcuni lavori prendono in considerazione situazioni limite create dalla tecnologia e dalla scienza nella civilta’ presente, che non hanno alcun paragone possibile nel passato e con cui di conseguenza dobbiamo inventare di volta in volta il nostro modo di rapportarci.

Il sex-appeal dell’inorganico e lo strano rapporto affettivo che lega l’uomo alle macchine caratterizzano ad esempio i progetti Truck babies (“Cuccioli dei camion”), Car nuggets (‘Pepite di automobili”), e Sheen (“Lucentezza”).


*3. Patricia Piccinini, Truck Babies (“Cuccioli dei camion”), 1999.
Fibra di vetro, pittura da automobili, parti elettriche, 2 pezzi, ciascuno 120 x 184 x 88 cm.

4., 5. Patricia Piccinini, Big Sisters, Serie di video.

*6. , 7. Patricia Piccinini, Car nuggets, fibra di vetro e pittura da automobili, ca cm 100 x 100.

Siren Mole (“Talpa sirena”) e’ invece un animale inesistente, che grazie all’animazione digitale diventa una scultura tridimensionale, dotata di movimento. Vedendolo in un filmato girato in uno zoo, del tutto simile ai documentari di divulgazione scientifica della televisione, ci rendiamo conto di quanto siano labili i rapporti tra finzione realta’ nel nostro mondo mediatico.

*8. Siren Mole: Excellocephala Parthenopa, 2000, scultura animatronics, ca. cm 100 x 100.

Animatronics:
http://video.google.it/videosearch?hl=it&q=animatronics&um=1&ie=UTF-8&ei=AiGsScCiMY6c1QXl_MC1Ag&sa=X&oi=video_result_group&resnum=4&ct=title

Piu’ che nelle singole opere, il senso delle “sculture” della Piccinini si manifesta nei progetti di cui esse fanno parte, complessi comprendenti fotografie, sculture, installazioni, e video, dove diviene meglio evidente il suo rapporto col mondo dei videogiochi, del cinema d’animazione, dei centri commerciali e dei parchi tematici, e piu’ in generale con le iconografie create dal mondo della comunicazione di massa, dalla pubblicita’ ai cartoni animati al film alla divulgazione scientifica.
Quasi senza eccezione, i lavori della Piccinini sono opere non autografe nel senso tradizionale del termine, poiche’ alla loro esecuzione hanno contribuito tecnici dei sistemi digitali, degli animatronics e degli effetti speciali, o artigiani specializzati di ambiti extraartistici (ad esempio, verniciatori di carrozzerie di auto e moto).

9. Nest (2006), edition 2/3.
Fibreglass, automotive paint, cycle parts. 90x150x170cm
Image 1 of 4

10. Thicker Than Water (2007), edition 2/6.
Fibreglass, automotive paint. 70x45x58cm

11. The Stags (2008), edition 1/3.
Fibreglass, automotive paint, cycle parts. 224x167x196cm
Image 2 of 3


Bibliografia

Oltre ai siti già citati nel testo, vedere

Rachel Kent, Call of the Wild/Patricia Piccinini (cat. della mostra), Sydney, Museum of Contemporary Art, 2002
Linda Michael, Christine Wertheim, Margaret Wertheim, We are Family (cat della personale nel Padiglione Australiano alla 50.ma Biennale di Venezia, 2003)




b) Ron Mueck


http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/gallery/2005/12/29/GA2005122900888_index_frames.htm?startat=1



Lo scultore australiano Ron Mueck è noto per le sue inquietanti figure umane iperrealistiche maggiori o minori del naturale, ma per il resto complete fino ai peli e ai capelli. Mueck, abituato a lavorare da fotografie, racconta in una celebre intervista del 2003 a Sarah Tanguy di Sculpture Magazine del suo primo traumatico incontro con un modello vivente:

http://www.sculpture.org/documents/scmag03/jul_aug03/mueck/mueck.shtml

“Avevo abbozzato in creta la figura di un uomo rannicchiato sotto le coperte”, racconta Mueck. “Poi ho cercato un modello che gli rassomigliasse abbastanza, ne ho trovato uno, e l’ho convocato in studio per una sessione di tre ore. Ma è risultato che non riusciva a prendere la stessa posa della mia figuretta sotto le coperte: non riusciva a flettere gli arti fino a quel punto, e la pancia gli era d’impaccio. Io da parte mia non ero abituato ad avere nello studio un’altra persona con cui dovermi relazionare mentre lavoravo, in più lui era nudo e completamente rasato, dettaglio che trovavo estremamente disturbante. Pensavo: ‘Cosa me ne faccio di questo tizio nudo?’ Gli ho chiesto di sedere in un angolo mentre riflettevo. Lui ha provato a suggerire alcune pose che poteva fare per me, e mi ha mostrato tutte quelle ridicole pose classiche che piacciono ai modelli viventi, erano così fasulle e innaturali che ho pensato che non c’era assolutamente modo per me di lavorare con lui. Stavo raccogliendo il coraggio per dirgli di andarsene prima della fine delle tre ore, e gli ho gettato uno sguardo mentre sedeva nel suo angolo aspettando che mi decidessi. Non era così scostante come appare nella scultura finita, ma la posa era quella. ‘Mi piace’, ho pensato”.



*1. Ron Mueck, Untitled (Big Man), 2000, , cm 205.7 x 117.4 x 208.8
Resina acrilica colorata su fibra di vetro.
Londra, Galleria Anthony d’Offay


http://www.jamescohan.com/
http://video.google.it/videosearch?q=ron+mueck+video&hl=it&emb=0&aq=-1&oq=#
http://video.google.it/videosearch?q=ron+mueck+video&hl=it&emb=0&aq=-1&oq=#



*2. Mask II, 2000.
Resina acrilica colorata, fibra di vetro.
New York, James Cohan Gallery



3. Untitled (Seated woman), 1999.
Resina acrilica colorata, fibra di vetro, silicone, poliuretano, stoffa.
New York, James Cohan Gallery



*4. Mother and Child, 2001.
New York, James Cohan Gallery



Mueck è nato nel 1958 a Melbourne, Australia. I suoi genitori fabbricavano giocattoli. Ha lavorato per quindici anni per show di pupazzi alla televisione, passando quindi agli effetti speciali cinematografici. Il suo lavoro nel cimena include Labyrinth, un film epico-fantastico del 1986 con David Bowie.
Mueck si è quindi stabilito a Londra aprendovi un proprio studio di fotografia pubblicitaria. Possiede tuttora numerose figure realizzate per quell’attività, che tuttavia hanno la caratteristica di essere complete solo dal lato dal quale devono essere fotografate. Pur ammettendo che alcune possiedono “una loro presenza”, Mueck ne conclude che la fotografia distrugge l’impatto fisico dell’oggetto originale, e decide di darsi alla scultura.
Nel 1996, in collaborazione con la suocera, l’artista Paula Rego, produce piccole figure come parte di un tableau in mostra presso la Hayward Gallery. Quando la Rego vede l'opera intitolata Pinocchio rimane colpita e lo presenta al collezionista Charles Saatchi, che, impressionato da subito, inizia a raccogliere e commissionare suoi lavori. Nel 1997 Mueck partecipa a Sensation , la mostra che ha portato alla ribalta la più recente generazione di artisti britannici, con l'opera Dead Dad. Nei tre anni successiva alla sua partecipazione a Sensation:

http://en.wikipedia.org/wiki/Sensation_exhibition

Mueck ha preso parte a mostre nelle maggiori gallerie di New York e in Germania, è stato selezionato per il London Millennium Dome e ha tenuto una personale alla Anthony D’Offay Gallery.

Fin dai primi anni ’90, ancora nei giorni della sua attività di pubblicitario, Mueck inizia a chiedersi quali materiali possano avere un vero effetto realistico. Si usava il lattice fino a quel momento, ma Mueck desiderava qualcosa di più inalterabile, più preciso. La risposta è stata la vetroresina, che vide per caso impiegata nella decorazione sul muro di una boutique, e che da allora è diventato il suo materiale di elezione.
Le sue opere partono generalmente da modelli in creta e poi colati in vetroresina o silicone, con dettagli come unghie capeli e peli applicati in seguito.

Una caratteristica delle opere di Mueck è che riproducono fedelmente ogni reale e minuto dettaglio del corpo umano, ma, al tempo stesso, giocano con la riproduzione in scala, creando effetti insoliti e stranianti.

L’artista crea dapprima modellini in creta per decidere la posa della figura, poi la realizza in varie dimensioni per decidere la scala. Il passo successivo è eseguire il modello in creta, da cui poi si ricava lo stampo per gettare la figura in vetroresina o silicone. Infine si dipingono i dettagli.
Attualmente Mueck crea le sue figure in silicone, ma, dal momento che questo materiale attira la polvere e lo sporco, spolvera lui stesso le sue figure con borotalco (“polvere amica”, come lui la definisce), il che lascia meno spazio alla “polvere ostile”.

( Da: http://www.artmolds.com/ali/halloffame/ron_muek.htm , con bibl.)


Sulla scala nelle figure di Mueck:
http://www.guardian.co.uk/artanddesign/video/2008/nov/19/statuephilia-british-museum-ron-mueck

Sulla tecnica:

http://www.nationalgallery.org.uk/exhibitions/past/mueck.htm
http://www.mentalfloss.com/blogs/archives/24338



*5. Untitled (Boy), 1999, silicone, poliuretano, fibra acrilica

Questa scultura, alta cinque metri, è stata al centro di un importante passaggio dell’artista alla Biennale di Venezia nel 2001.


http://www.guardian.co.uk/artanddesign/video/2008/nov/19/statuephilia-british-museum-ron-mueck http: //www.guardian.co.uk/artanddesign/video/2008/nov/19/statuephilia-british-mus

L’artista è stato recentemente stato incliso nella mostra Statuephilia: Contemporary sculptors at the British Museum (Opere di Damien Hirst, Antony Gormley, Ron Mueck, Marc Quinn e Noble and Webster), 4 Ott. 2008 – 25 gen 2009 (vedere link in bibliografia).



Bibliografia

Oltre ai link già indicati, si veda:


http://christchurchartgallery.org.nz/exhibitions/ron-mueck/
http://www.guardian.co.uk/stage/2006/aug/09/comedy.edinburgh20063
http://www.ilpost.it/2012/04/17/la-mostra-di-ron-mueck-a-londra/
http://www.guardian.co.uk/artanddesign/gallery/2012/apr/18/ron-mueck-hauser-wirth-in-pictures




c) Michal Rovner




Un’artista che gioca con l’iconografia in modo molto sottile, magistrale. Le sue immagini sono concepite in modo da creare da un lato un preciso riferimento visivo a repertori d’immagini ben noti (soldati contemporanei nel deserto, reclusi in un campo di prigionia), ma escludendo nello stesso tempo gli elementi che potrebbero precisare l’identificazione, impedendoci di riferire l’immagine a un luogo o a un momento ben definiti nel tempo.
Nata in Israele nel 1957, Rovner ha studiato cinema, televisione e filosofia all’università di Tel Aviv e si è laureata in arti visive all’Accademia Bezalel. Nel 1978, ha fondato insieme con il suo fidanzato la Camera Obscura Art Scool a Tel Aviv per studi nel campo del cinema, del video e della computer art. Per parecchi anni ha sviluppato la ricerca artistica a margine della sua attività di fotogiornalista e fotografa pubblicitaria; ma alla fine degli anni ’90, con opere come

*1. Overhanging (1999), installazione video

Da qui la sua poetica visiva, basata su un raffinato uso dell’immagine sfocata, ambigua, e dei contrassegni iconografici, comincia a prendere dei connotati precisi.
Concepita in un periodo in cui l’artista si era trasferita da poco da Israele a New York e seguiva in televisione i resoconti della guerra del Golfo, Overhanging ha per tema l’ambivalenza dell’immagine e il dubbio margine di verità che hanno i resoconti televisivi in generale.
Su una serie di venti schermi, posti su due file affrontate, Rovner fa scorrere le immagini di due distinte situazioni: una tempesta di neve a New York e una di sabbia nel deserto di Israele, entrambe filmate non direttamente, ma davanti allo schermo del televisore. Le due serie contrappongono, fino a confonderli e a renderli identici, gruppi di figure in difficoltà, resi indistinti dalle condizioni atmosferiche, anonime immagini di esseri umani in lotta e in pena.
Proprio su quest’opera, esposta nella prima importante restrospettiva di metà carriera della Rovner, al Whitney Museum nel 2002, si appuntarono delle critiche: le sue figure di soldati nel deserto, volutamente indistinte, cancellavano i contrassegni di nazionalità non permettendoci di capire se quelle figure in lotta erano “i nostri” o gli altri, quelli da amare da amare o quelli da odiare.
Chiamata a rappresentare Israele alla Biennale di Venezia del 2003, con la sua monografica Against order? Against disorder? Rovner alzò il tiro, chiarendo coraggiosamente che quella era esattamente la sua intenzione: con un memorabile gruppo di opere nuove, tematicamente collegate tra loro, mostrò immagini riferibili a campi di prigionia, allo sterminio, all’olocausto, ma rimuovendo ancora una volta i contrassegni che avrebbero potuto ancorare quelle immagini a un momento storico preciso e ben individuato. In tal modo, le immagini alludono non alle sofferenze di un popolo particolare in un determinato momento storico, ma a qualcosa di più inatteso, e se possibile, ancora più inquietante: al mostro dell’oppressione, sempre in agguato, non confinato in modo rassicurante nel passato, ma vivo e temibile oggi come un tempo, forse attivo ancora, in qualche luogo, nel tempo presente.
Il video all’ingresso del padiglione, che annunciava il tema dell’intera mostra, faceva soffermare il pubblico a lungo. Mostrava un gruppo d’uomini che camminavano in circolo, come nei luoghi di prigionia di ogni tempo. Lo sfondo, di un bianco abbacinato, poteva sembrare di neve, e qualcosa nel taglio dei lunghi pastrani di quelle figure sfocate e indefinite poteva ricordare gli anni ’30 o ’40, ma solo molto vagamente. Ed erano poi veramente prigionieri? Non c’erano sorveglianti in vista, e ogni tanto qualche figura si staccava dal circolo e si allontanava, mentre gli altri continuavano il loro monotono percorso in cerchio. Appesi alle altre pareti della sala, alcuni still da video mostravano lo stesso cerchio di figure ripreso dall’alto. Al piano di sopra, il visitatore trovava la vera, forte sorpresa: dei tavoli in penombra, su cui erano disposti dei contenitori circolari in vetro simili alle capsule da coltura usate nei laboratori. All’interno delle capsule, file di minusoli uomini ripresi dall’alto formavano gli strani cerchi, le spirali, le catenelle che abbiamo visto molte volte annodarsi e snodarsi nei documentari scientifici che mostrano la vita dei microrganismi.
Quest’opera,

*2. Data Zone, 2003, videoinstallazione

era un vero choc: esseri umani come batteri? Messi da qualcuno a quest’abissale distanza visuale che li rende esseri minuscoli, insignificanti, usabili per gli esperimenti?
Sul fondo delle capsule, gli omini minuscoli come batteri continuavano a comporre e scomporre le loro indecifrabili figure.
Ora noi sappiamo che questo è realmente accaduto, che in uno dei momenti più scuri del XX secolo e dell’intera storia umana qualcuno ha davvero trattato altri uomini in questo modo, li ha distanziati a una profondità abissale, li ha visti come esseri infimi, li ha usati per esperimenti. Ma questa installazione video di Michal Rovner, non mostrando alcun connotato d’epoca e di luogo, lascia adito a dubbi: chi mette sotto il microscopio chi? Chi è l’oppressore e chi è l’oppresso in questo momento, nelle guerre del presente?
Nell’installazione della stanza successiva,

Time Left, 2000, videoinstallazione

le pareti erano interamente ricoperte da file orizzontali sovrapposte di minuscoli omini che marciavano verso una meta indefinita, ordinati e indecifrabili. Con una eccezionale economia di mezzi, Rovner riusciva a suscitare un grande senso di mistero.

Dal catalogo della Biennale 2003:

Commissario e Curatore: Mordecai Omer
Commissari aggiunti: Diana Shoef, Arad Turgeman
Artista: Michal Rovner


“Nel padiglione israeliano presentiamo due videoinstallazioni di Michal Rovner. Il progetto di Time left presenta file orizzontali di figure nere contro uno sfondo scuro. Sovrapposte dal pavimento al soffitto lungo le quattro pareti, queste immagini suggeriscono una forma di testo e somigliano a geroglifici egiziani o a una sezione dei manoscritti del Mar Morto. Le immagini seguono un passo lento e ripetitivo, in cui c'è movimento ma non si vede progressione”.
“Michal Rovner ha eseguito le riprese per la sua opera in Russia, Romania e Israele. Per gli spettatori, il luogo dov'è stato ripreso il video non è né evidente né importante al fine di leggere l'opera, ma comunque, i luoghi sono stati accuratamente selezionati da Rovner come punto di partenza per creare la sua ambientazione”.
“Nelle sue opere precedenti, Rovner conduceva una ricerca sul significato dei confini e il loro attraversamento incerto. Qui individua un suo testo linguistico creato attraverso il video. Nelle sue opere precedenti, il video stabiliva un dialogo con i valori della pittura, un testo linguistico difficile da decifrare. Pur in assenza di un avanzamento o un cambiamento, dove tutto rimane uguale in uno stato di flusso permanente, lo spettatore è immerso in una tensione che non lo lascia per tutta la durata dello spettacolo”.
“Quanto all'opera recente di Rovner, Data zone, questa si può leggere come ricerca intensa sulle dinamiche e le energie umane. È una ricerca scientifica, che sonda la cavia umana al suo livello più fisico e molecolare, rimandando a fenomeni quali la clonazione. Ma al tempo stesso indaga sulla psiche umana e lo stato mentale dell'essere”

Mordecai Omer


Michal Rovner si considera un'artista nomade, il cui percorso inizia in Israele negli anni Ottanta, ma l'affermazione sulla scena artistica internazionale avviene nei primi anni Novanta, dopo il trasferimento a New York, che rimane tuttora la sua "seconda base" dopo la sua casa nel deserto nei pressi di Tel Aviv.
Il costante spostamento caratterizza non solo il suo percorso personale ma anche il suo modo di lavorare, che è un continuo passaggio tra mezzi e tecniche diversi: fotografia, video e cinema.
Il "nomadismo", lo "spostamento" nelle zone di confine e nei territori incerti sono i temi che affronta e che danno una forte impronta all' immaginario visivo che crea. E' un immaginario popolato da figure dai lineamenti spesso irriconoscibili, ombre e sagome umane e animali, che evocano atmosfere che possono sembrare estremamente poetiche e drammatiche allo stesso tempo. Queste zone di confine sono per la Rovner i luoghi dove si è più consapevoli della fragilità dell'esistenza umana, il tema centrale del suo lavoro, ed è per questo che le figure appaiono prive di un'identità definita, in modo da sembrare più universali e vicine a tutti.

Michal Rovner ha esposto in Italia presso la Galleria Stefania Miscetti di Roma

http://www.studiostefaniamiscetti.com/artist_bio.php?id=10


http://www.youtube.com/watch?v=lXX9xrDJt-8&feature=related


In opere successive, l’allusione al cammino dell’uomo nel mondo come un’arcana scrittura si precisa: in Stones, Rovner presenta in bacheche di vetro, simili a quelle dei musei, delle pietre su cui gli omini in fila si muovono scorrendo e appaiono simili ai segni di una misteriosa, indecifrata scrittura.

Altre opere:

4. In Stone:
www.pacewildenstein.com
http://www.youtube.com/watch?v=ibLfFyOqcjc

5. Makom II
http://www.youtube.com/watch?v=SHwAc51r5F0&feature=related

*6. Untitled, dalla serie Outside, 1991
http://www.corcoran.org/collection/highlights_main_results.asp?ID=118
http://www.metmuseum.org/search/iquery.asp?datascope=all&command=text&attr1=%22Rovner%22

Bibliografia:


BEDARIDA, Partecipazione israeliana alla cinquantesima Biennale di Venezia, www.archimagazine.com/rbeda.htm, pagg. 3/7
Sogni e conflitti/La dittatura dello spettatore, 50.ma Esposizione internazionale d’arte “La Biennale di Venezia”, a cura di Francesco Bonami, Marsilio Editore, 2003, pagg.348-349
G.VALLESE, Rovner, “Arte”, gennaio 2003

http://www.artinfo.com/news/story/37854/the-politics-of-the-stones-artist-michal-rovner-imports-the-israel-palestine-conflict-to-the-louvre-in-order-to-heal-it/



TRIENNIO Artisti e videocamere di sicurezza: Julia Scher, Jonas Dahlberg, Ann-Sofi Sidén




a) Julia Scher



1. Julia Scher, Security Land, 1995




Con le sue opere basate sulla videocamere di sicurezza, Julia Scher ha contribuito a lanciare un filone in seguito abbracciato da diversi artisti, fra cui Jonas Dahlberg e Ann-Sofi Siden.
Dopo aver realizzato le sue prime opere interagendo con le videocamere di sorveglianza situate nel college universitario nel quale studiava, la Scher è diventata animatrice dei Surveillance Camera Players, un collettivo che dal 1996 interagisce con le videocamere di sorveglianza collocate negli spazi pubblici.

Sul suo coinvolgimento nell’ambito della net art, vedere l’intervista:
http://rhizome.org/discuss/view/29746/#2772




b) Jonas Dahlberg




Lo svedese Jonas Dahlberg è soprattutto noto per due opere video create realizzando modellini architettonici entro i queli una videocamenra viene succesivamente fatta scorrere su binari.
Il risultato è estremamente suggestivo: l’occhio della telecamera scorre con una regolarità innaturale attraverso una sequenza di stanze vuote, simili in apparenza ai corridoi deserti di un albergo, con un effetto che è estremamente ricco di suspense, vagamente associabile, attraverso il bianco e nero, a scene e atmosfere di vecchi film.



*2. Jonas Dahlberg, Horizontal Sliding, 2000, videoinstallazione


3. Jonas Dahlberg, Vertical Sliding, 

2001.
Opera presentata fra l’altro alla Biennale di Venezia nel 2003.


Nell’opera:


*4. Safe Zones N°9, 2004

l’intervento consisteva nell’apparente collocazione di videocamere di sorveglianza nei bagni, che realtà sono soltanto riprodotti in modellini e poi filmati; l’operazione mira a far riflettere sulle nostre attese riguardo alle videocamere di sorveglianza e sulle nostre sensazioni riguardo all’essere osservati/spiati.



http://www.jonasdahlberg.com/




c) Ann-Sofi Sidén

Nel seguente link si trova un profilo di Ann-Sofi Siden, una delle maggiori artiste svedesi contemporanee, il cui lavoro si focalizza sulla donna, spesso con l’uso di videocamere di sicurezza:

http://www.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/cgi-bin/undo/magazines/magazines.pl%3Fid%3D951344786%26riv%3Dflashita%26home%3D


5. Who Told the Chambermaid? , videoinstallazione, 1998

Monitor di sorveglianza sono allineati su mensole, accanto a lenzuola e asciugami.
Nei video scorrono immagini degli 
interni di un albergo: clienti che attraversano la hall, una donna a letto, due uomini che si incontrano in sala riunioni

6. 
QM, I Think I Call Her QM , film a 35 mm, 1997

Basato su una vicenda reale, parla di una psichiatra paranoica che scopre sotto il proprio letto, nella sua casa new yorkese, il corpo di una donna coperta di fango.
Il film ci mostra le indagini della psichiatra che cerca di scoprire l'origine e la natura della misteriosa creatura battezzata Queen of Mud, regina del fango, in un intreccio che spazia dal genere poliziesco al thriller.

Codex (1993), si basa su informazioni d'archivio sulle donne svedesi punite e condannate tra il medioevo e il XIX secolo. Le fotografia rimettono in scena le punizioni, con un eloquio che cita lo stile nitido e oggettivo di Vermeer

7. http://www.christinekoeniggalerie.com/artist_details/items/siden.40.html

8. Wart Mal!, videoinstallazione.

Ambientata nella piccola città di Dubi sul confine tra Germania e Repubblica Ceca: combinando proiezioni e interviste, assemblate in un collage di materiali grezzi 
come gli schizzi per un story board o una sceneggiatura, Ann-Sofi Sidén scrive il diario di un viaggio in un microcosmo popolato da prostitute, protettori e clienti che affollano le strade, gli alberghi e i bar.

Wart Mal! ("Aspetta un 
attimo"), ripete le voci ai bordi delle strade e nei locali ambigui, creando nel contempo un richiamo alla catena di ipermercati economici americani WallMart. Un richiamo di seduzione, ma anche un invito rivolto agli spettatori, come a pretendere più attenzione nei confronti di un mondo ignorato.










Bibliografia


Vedere i link indicati nelle singole sezioni

sabato 17 maggio 2014

ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA I ritratti di Agnolo Bronzino, l'Accademia del Disegno e le Manifatture Medicee

Agnolo Bronzino: ritratti e allegorie nella Firenze granducale


Una parte consistente delle collezioni medicee del Quattrocento è costituita da gemme e monete antiche, da cui gli artisti della cerchia traggono ispirazione per soluzioni stilistiche e temi iconografici. L’offrire a valenti giovani artisti l’accesso alla collezione dei marmi antichi (custoditi nel Giardino di San Marco) e a quella delle gemme, oltre che alla conversazione con umanisti e intellettuali della cerchia familiare, costituisce il primo germe dell’idea di un’accademia d’arte.
La prima Accademia di belle arti della storia, concepita con la formula tuttora in uso di luogo d’incontro fra i saperi artigianali connessi all’arte e discipline umanistiche, prenderà in effetti una forma istituzionale proprio a Firenze oltre mezzo secolo dopo: si tratta dell’Accademia del Disegno fondata nel 1562 da Giorgio Vasari, e cui furono messi a capo come “principi”, e significativamente posti sullo stesso piano, Michelangelo Buonarroti, allora all’apice della fama, e il granduca di Firenze Cosimo I de’ Medici.
Una grande esposizione a Palazzo Strozzi a Firenze ha rivisitato nel 2011 l’opera di Agnolo di Cosimo, detto il Bronzino (1503-1572), raffinato pittore di corte negli anni del governo di Cosimo I de’ Medici, esponente di spicco dell’Accademia fiorentina e una delle maggiori figure del nostro Cinquecento.



2., 3. Michelangelo, Particolari dell’architettura e dell’ornamentazione scultorea della Biblioteca Laurenziana, Firenze 1525-34

*4. Agnolo Bronzino, Ritratto di giovane con libro, ol./tav., 95,5 x 75 cm , 1535-40 ca.
New York, Metropolitan Museum

*5. Agnolo Bronzino, Ritratto di Ugolino Martelli, olio su tav. 102 x 85 cm, 1535-38 ca.
Berlino-Dahlem, Gemäldegalerie

*6. Agnolo Bronzino, Ritratto di Bartolomeo Panciatichi, ol./tav., cm 104 x 85 , 1540 ca.

*7. Agnolo Bronzino, Allegoria della Giustizia, affresco, 1540-41
Firenze, Palazzo Vecchio, Cappella di Eleonora da Toledo

*8. Bronzino, Allegoria della Temperanza, affresco, 1540-41
Firenze, Palazzo Vecchio, Cappella di Eleonora da Toledo

Una parte consistente delle collezioni medicee del Quattrocento è costituita da gemme e monete antiche,  da cui gli artisti della cerchia, come negli esempi appena visti, traggono ispirazione per soluzioni stilistiche e temi iconografici. L’offrire a valenti giovani artisti l’accesso alla collezione dei marmi antichi (custoditi nel Giardino di San Marco) e a quella delle gemme, oltre che alla conversazione con umanisti e intellettuali della cerchia familiare, costituisce il primo germe dell’idea di un’accademia d’arte. La prima Accademia di belle arti della storia, concepita con la formula tuttora in uso di luogo d’incontro fra i saperi artigianali connessi all’arte e discipline umanistiche, prenderà in effetti una forma istituzionale proprio a Firenze oltre mezzo secolo dopo: si tratta dell’Accademia del Disegno fondata nel 1562 da Giorgio Vasari, e cui furono messi a capo come “principi”, e significativamente posti sullo stesso piano, Michelangelo Buonarroti, allora all’apice della fama, e il granduca di Firenze Cosimo I de’ Medici.


Bibliografia

Su Michelangelo e Bronzino:
F. HARTT, Michelangelo/I disegni, trad.it. Milano, Garzanti, 1972
E. BACCHESCHI, L’opera completa del Bronzino, Milano, Rizzoli (“Classici dell’Arte”, N°70), 1973
C. FALCIANI e A. NATALI (a cura di), Bronzino pittore e poeta alla corte dei Medici, Firenze, Mandragora, 2011
http://www.palazzostrozzi.org/SezioneBronzino.jsp?titolo=Cataloghi&idSezione=359

Sulle collezioni medicee, la loro influenza sugli artisti e le origini dell’Accademia del Disegno a Firenze:

N.DACOS, Arte italiana e arte antica, in Storia dell’Arte italiana, Parte prima, volume terzo, Torino, Einaudi, 1979
F. M. TUENA, G. MORI, Il tesoro dei Medici/Collezionismo a Firenze dal Quattrocento al Seicento, Firenze, Giunti (“Art Dossier N° 18), 1987
N. PEVSNER, Le Accademie d’arte (1940) , trad. it. Torino,  Einaudi, 1982





ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo: Dürer e Verrocchio/Bosch, Il Giardino delle Delizie

a) Il Cavaliere di Dürer


*1. Albrecht Dürer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, incisione a bulino, 1513.


In quest’opera, che fa parte, insieme alla Melencolia I e al San Girolamo nello studio, della triade delle grandi incisioni mature, Dürer nutre di spunti visuali di Rinascimento italiano un tema caro agli umanisti nordici del suo periodo: quello del combattente per la fede, del cristiano che si arma per la verità e persegue il difficile cammino della virtù.
L’immagine può essere messa in rapporto con l’Enchiridion Militis Christiani (“Istruzione del milite cristiano”), pubblicato da Erasmo da Rotterdam nel 1504. Il cristiano militante descritto da Erasmo (sulla base delle lettere di San Paolo, 2 Cor. 10, 1-6; Eph 6, 11-20) , è un laico che non vive nell’inerzia morale, ma si riscuote e si arma e per la propria e l’altrui rinascita morale. Questo personaggio è qui rappresentato in modo originale da Dürer nelle vesti di un inflessibile cavaliere, che continua impavido il suo cammino senza lasciarsi scuotere dalla Morte (un orrendo cadavere sul suo cavallo macilento, che gli mostra la clessidra a significare il tempo che scorre inesorabilmente), e dal Diavolo (il cui grugno porcino indica che si tratta, fra l’altro, di un’incarnazione dei bassi istinti).
L’immagine, pur così tipicamente nordica e impregnata dello spirito della Preriforna, è ricca di palesi riferimenti italiani: nel cavallo e cavaliere, ad esempio, si avverte la profonda eco dello straordinario eroe a cavallo immaginato da Verrocchio nel suo monumento al Colleoni; i teschi che sembrano apparire tra i ciottoli della via sono collegabili all’immagine nelle nubi, un motivo che appare di frequente nell’opera del Mantegna.


*2. Andrea del Verrocchio, Bartolomeo Colleoni, 1486-88
Venezia, Campo San Giovanni e Paolo



Nel 1479 la Repubblica di Venezia decretò la realizzazione di un monumento equestre per il condottiero Bartolomeo Colleoni, morto tre anni prima; nel 1480 ne affidò l'esecuzione al toscano Andrea Verrocchio, nel 1481 il modello in cera venne mandato a Venezia, dove nel 1486 si trasferì l'artista stesso per attendere alla fusione in bronzo del gruppo. Andrea morì nel 1488 a lavoro non terminato. Aveva nominato suo erede ed esecutore Lorenzo di Credi, ma la Signoria veneziana gli preferì Alessandro Leopardi, artista locale. Per la realizzazione del gruppo, Andrea si rifece alla statua equestre del Gattamelata di Donatello, alle statue antiche di Marco Aurelio e dei cavalli di San Marco, rarissimi originali bronzei risalenti alla Grecia Classica; ma tenne anche presente l'affresco con Giovanni Acuto di Paolo Uccello in Santa Maria del Fiore.
La sua è la prima statua equestre in bronzo a raffigurare una delle gambe del cavallo in posizione sollevata. In altre parole, l'intero peso della statua è sorretto da tre gambe invece che quattro.



*3. Andrea Mantegna, San Sebastiano, Vienna, Kunsthistorisches Museum


Come Gombrich ha fatto più volte osservare, Mantegna è tra i primi a dare evidenza in pittura all’immagine che l’osservatore tende a proiettare nelle forme delle nubi (Ernst H. Gombrich dedica un capitolo a questo tema in una delle sue opere più note, Arte e illusione del 1959, trad. it. Torino, Einaudi, 1965, studio fondamentale nella bibliografia dell’autore che tuttavia interessa più la psicologia della percezione che non l’iconografia).






b) Jheronimus Bosch: l’iconografia del giudizio Finale



Con Il Giardino delle Delizie, celebre opera della maturità, Bosch spinge ancora più oltre la sua personale trasformazione di uno schema iconografico tradizionale, il trittico a tre sportelli del Giudizio Finale (di cui vediamo un perfetto esempio in Memling), in una rassegna tre fasi delle follie che costellano il percorso della vita umana: dalle disobbedienze all’ordine divino che seguono la Creazione e portano alla cacciata dell’umanità dal Paradiso, al disordine nella vita presente, fino a un inferno visto come estrema degenerazione degli orrori e delle storture del vvere quotidiano.
Nel Giardino delle Delizie, in particolare, grande opera a fondo chiaro databile alla maturità di Bosch intorno al 1510-16, il pannello centrale mostra il mondo presente come un Giardino di Eden degenerato. L’invasione della follia è messa in scena attraverso le stranezze e le trasgressioni lungamente maturate sui margini dei manoscritti gotici e riprese dalle stampe didascalico-morali e che l’artista ’ibera’, per così dire, dal loro serraglio: scene del “mondo alla rovescia” come uccelli nell’acqua e pesci nell’aria, cavalieri su cavalcature di fantasia, figure umane che si aggirano tra fiori e insetti più grandi di loro, ecc. (Vallese, Follia e ‘mondo alla rovescia’ cit. in bibliografia, figg. 1-15).



*4., 5. Bosch. Il Giardino delle Delizie, esterno, interno, assieme.
Madrid, Prado

6. Bosch, Il Carro di Fieno, interno, assieme
Madrid, Prado

*7., 8. Hans Memling, Giudizio Finale (Il Trittico di Danzica), pannello centrale e laterali

Il trittico conservato nel Pomorskie Muzeum di Danzica, che l’artista cominciò a dipingere intorno al 1470, si compone di un grande pannello centrale rappresentante il Giudizio Universale, di un pannello di sinistra, dipinto su entrambe le facce, con Il donatore Angelo Tani e la statua della Madonna e con La porta del Paradiso, e di un pannello destro, anch'esso dipinto su entrambe le facce e rappresentanti La donatrice Caterina Tanagli con la statua di san Michele e L'Inferno.
Il trittico fu commissionato da Angelo Tani, direttore della Banca Medici a Bruges, e dalla moglie Caterina Tanagli, i cui nomi furono identificati dagli stemmi di famiglia dipinti nei due pannelli. La nave che trasportava l’opera a Firenze, appartenente ai Medici, fu assalita mentre navigava nella Manica dal corsaro di Danzica Paul Benecke il 27 aprile 1473, il quale trafugò il Trittico e ne fece dono alla Cattedrale della sua città.
La data di compimento dell'opera va pertanto collocata nel periodo compreso tra il 1466, anno nel quale i due committenti si sposarono a Firenze, e il 1473: attribuita per la prima volta a Memling nel 1843, è oggi considerata, unitamente al Reliquiario di sant'Orsola, il suo capolavoro.

Per ‘ingentilire’ alcuni dettagli, Bosch li impronta all’eleganza slanciata che caratterizza figure e animali nelle stampe di Martin Schongauer (ca. 1448 - 2 febbraio 1491), pittore e incisore considerato il più abile incisore su rame della prima scuola tedesca.
A differenza di Durer, più giovane di lui di circa vent’anni, Schongauer rimane pressochè immune dagli influssi del Rinascimento italiano, e aderente a un universo tardogotico.
Il padre era un orafo proveniente da Augusta (ted. Augsburg) che si era trasferito a Colmar, città dove Schongauer trascorse la maggior parte della sua vita. Nel 1465 l'artista frequenta l'Università di Lipsia. Tra il 1466 e il 1469 lavora con Caspar Isenmann, molto attratto dai pittori fiamminghi, il che gli permette di viaggare in Olanda e Borgogna, dove ha modo di conoscere le opere di Rogier van der Weyden, Dieric Bouts e Jan van Eyck, pittori che lo influenzarono notevolmente. Nel 1470 torna a Colmar, dove apre una propria bottega nella quale lavorerà fino alla morte.



Bibliografia

Su Dürer:
AA.VV., Officina Dürer (Cat. della mostra al Museo di Santa Apollonia, 2006/07), Milano, Skira, 2007

Umanesimo nordico e Umanesimo italiano:

R.ROMANO, A.TENENTI, Alle origini del mondo moderno, Milano, Feltrinelli, 1967

Sul Verrocchio:
http://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_del_Verrocchio

Su Erasmo, si veda, oltre agli apparati della trad.it. delle sue diverse opere nelle edizioni Einaudi:

http://www.bibliomanie.it/erasmo_ragione_storia_correzzola.htm

Su Memling:
M.CORTI, G.FAGGIN, L’opera completa di Memling (“Classici dell’arte” , n° 27), Milano, Rizzoli 1969

Su Bosch:
G.VALLESE, Il tema della follia nell’arte di Bosch: iconografia e stile, “Paragone/Arte” n° 405, novembre 1983, pagg. 3-49

G.VALLESE, Follia e mondo alla rovescia nel Giardino delle Delizie di Bosch, “Paragone/Arte”
n° 447, maggio 1987, pagg. 3-22

P. WILLIAMS LEHMANN, Cyriacus of Ancona’s Egyptian Visit and its Reflections in Gentile Bellini and Hieronymus Bosch, Locust Valley, New York, J.J.Augustin Publisher, 1977


Su Schongauer:
http://it.wikipedia.org/wiki/Martin_Schongauer

Sul ‘Mondo alla rovescia’:
G.Cocchiara, Il mondo alla rovescia (1963), Torino, Bollati Boringhieri, 1981
http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Cocchiara

ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA La nuda nel paesaggio: da Giorgione a Manet


a) La nuda nel paesaggio e il Rinascimento veneziano


*1. Giulio Campagnola, Ninfa dormiente, incisione.
Venezia, Fondo storico dell’Accademia di Belle Arti

Questo foglio è degno di nota non solo per la tecnica inconsueta del “bulino puntinato”, introdotta da questo incisore vicino all’ambito giorgionesco per ottenere un effetto più atmosferico e sfumato, ma anche per la sua singolare iconografia.
La ninfa dormiente volta di spalle, sola nel paesaggio, viene posta in relazione con una possibile invenzione di Giorgione, attestata dalle fonti: secondo Marcantonio Michiel, in casa di Pietro Bembo a Padova si trovava la miniatura su pergamena di una “nuda tratta da Zorzi, stesa e volta” (Zorzi = Giorgio, cioè Giorgione; vedi scheda 138 nel catalogo Rinascimento a Venezia, elencato in bibliografia).
Fra le opere oggi note del maestro di Castelfranco, la cosiddetta “Venere” del museo di Dresda ci presenta una nuda che dorme castamente in un paesaggio. Da osservare che mancano in quest’immagine gli attributi tradizionali di Venere (coppia di conigli o di colombe, simbolo di fertilità e di lascivia, o il piccolo Cupido), anzi, presso la figura, si osserva un ceppo reciso, possibile elemento allusivo alla sterilità.
Un elemento innovativo è che, in entrambe le immagini, la nuda nel paesaggio è sola: mancano i Satiri che nelle rappresentazioni classiche, e anche in una nota silografia dell’Hypneromachia Poliphili, ne spiano il sonno.

*2. Giorgione, Nuda in un paesaggio (“Venere dormiente”)
Dresda, Gemäldegalerie

*3. Tiziano, “Venere di Urbino”, olio su tela, cm 119 x 165 , 1538
Firenze, Uffizi

Eseguita su commissione di Guidobaldo Della Rovere, futuro duca di Urbino, il quale nel marzo del 1538 ingiungeva l suo incaricato a Venezia di non ritornare a Urbino senza “la donna nuda”.
Per la prima volta nella storia della pittura occidentale la “Venere” è una donna reale, ambientata in una stanza da letto veneziana nella quale si osserva il dettaglio di due cameriere (una delle quali inginocchiata di spalle, intenta a frugare in un cassone) che preparano i suoi abiti.
Con gli occhi bene aperti e fissi su chi guarda, questa maliziosa ragazza forma un netto contrasto con la sognante e incolpevole sensualità della figura di Giorgione.

4. Lucas Cranach, La ninfa della fonte.
Berlino-Brandenburg, Stiftung Preussische Schlösser und Gärten

Lucas Cranach eseguì numerose repliche e varianti di questa composizione, che ebbe a quanto pare grande successo.
Il titolo del dipinto deriva dall’iscrizione in alto a sinistra (“Sono la ninfa della sorgente sacra, non disturbate il mio sonno: sto riposando”), forma abbreviata di una poesia pseudo-classica della fine del XV secolo, che si diceva rinvenuta presso la statua dormiente di una ninfa in un’imprecisata località presso il Danubio).
Nonostante la diversità stilistica, quest’immagine di Cranach presenta punti di contatto con l’iconografia adottata da Giorgione: il sonno della fanciulla e le caviglie intrecciate sono simboli di verginità e di purezza, che l’iscrizione esorta a non contaminare.

*5. Marcantonio Raimondi, “Il sogno di Raffaello”, ca. 1508. Incisione a bulino
Sull’iconografia di questa enigmatica immagine, forse da porre in relazione con le “nude” di Giorgione e del Campagnola, si veda Il Rinascimento a Venezia, scheda N° 114

Per confronto, aggiungiamo ancora due celebri ninfe del Rinascimento:

*6. Benvenuto Cellini, Ninfa di Fontainebleau. Bronzo, base cm 109
Parigi, Museo del Louvre

Prima del Perseo e del Narciso, la prima grande scultura eseguita dal Cellini é questa Diana cacciatrice per il castello di caccia di Francesco I, in Francia, nel 1543-44. Col suo elegante allungamento delle proporzioni in gusto neo-gotico, quest’opera fu esemplare per la Scuola di Fontainebleau.

*7. Rosso Fiorentino, Ninfa delle acque, 1522-40, affresco
Castello di Fontainebleau, Galleria di Francesco I



b) Manet a Palazzo Ducale

Manet. Ritorno a Venezia è il titolo della mostra che la Fondazione Musei Civici di Venezia ha ospitato dal 24 aprile al 18 agosto 2013 a Palazzo Ducale, progettata con la collaborazione speciale del Musée D’Orsay di Parigi, l’istituzione che conserva il maggior numero di capolavori dell’artista.
La mostra nasceva dalla necessità di un approfondimento critico sui modelli culturali che ispirarono il giovane Manet negli anni del suo precoce avvio alla pittura. Questi modelli, fino ad oggi quasi esclusivamente riferiti all’influenza della pittura spagnola sulla sua arte, furono invece assai vicini alla pittura italiana del Rinascimento, come dimostra l’esposizione veneziana che include, accanto ai suoi capolavori, alcune eccezionali opere ispirate ai grandi tableaux della pittura veneziana cinquecentesca, da Tiziano a Tintoretto a Lotto. L’esposizione veneziana ha inoltre messo in luce il rapporto stringente dell’artista con l’Italia e la città lagunare. Curata da Stéphane Guégan, con la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli, la mostra si è avvalsa di una collaborazione speciale del Musée D’Orsay di Parigi.


Considerare in particolare, alle pagg. 82-107 del catalogo citato in bibliografia, le seguenti opere con i relativi confronti:

8.*Edouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, 130,5 x 190 cm
Parigi, Musée d’Orsay

9. *Id., Le Déjeuner sul l’herbe, 1863 circa, olio su tela, 89 x 116 cm
Londra, The Courtauld Gallery, The Samuel Courtauld Trust




Bibliografia

Oltre alle opere citate nel testo, si vedano:

AA.VV. Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai tempi di Bellini, Dürer, Tiziano (cat. della mostra a Venezia, Palazzo Grassi), Milano, Bompiani, 1999, in part. le schede n°114,138-142)

AA.VV., Venere svelata/La Venere di urbino di Tiziano, a cura di Omar Calabrese,  cat. della mostra a Bruxelles, Palais des Beaux-Arts, 2003

C.CAGLI-F.VALCANOVER, L’opera completa di Tiziano, Milano, Rizzoli (“Classici dell’Arte”, N°32), 1969

http://www.polomuseale.firenze.it/catalogo/scheda.asp?position=1&nctn=00131831&rvel=null
http://www.wga.hu/index1.html

AA.VV. , Manet/Ritorno a Venezia, a cura di Stéphane Guégan, Cat. della mostra a Palazzo Ducale, 24 aprile- 18 agosto 2013, Ginevra-Milano, Skira, 2013

ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA L' 'Epifania' di Michelangelo. Allegoria ed emblematica nel secolo d'oro dell'arte olandese

ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA L'Epifania di Michelangelo/Realismo ed emblematica nel secolo d'oro dell'arte olandese


*1. Michelangelo, "Epifania".
Carboncino su carta, 1550–1553, 2.32 x 1.65 m
Londra, British Museum

http://en.wikipedia.org/wiki/Epifania http://www.britishmuseum.org/explore/highlights/highlight_objects/pd/m/michelangelo_buonarroti,_epifa.aspx

Il cartone di Michelangelo al British Museum noto come l’Epifania non è uno dei più amati o riprodotti fra i suoi capolavori.
E’ un’opera dell’artista già molto anziano (la realizzò a 75 anni).
Il linguaggio è quello della Cappella Paolina: figure massicce, di grande impatto monumentale, un racconto spoglio fino ad essere disadorno, come se l’artista non avesse più tempo o interesse per gli orpelli, un tratto che ha perso l’esaltante nerbo di un tempo, è ormai quello spesso e arrotondato, diciamo pure stanco, delle opere estreme.
Il soggetto di quest’opera è tuttora di incerta decifrazione: la figura al centro è certamente la Vergine, con ai piedi il Bambino e San Giovannino; con la sinistra respinge una figura di vecchio (generalmente interpretato come San Giuseppe, il gesto alluderebbe al miracoloso concepimento di Gesù, senza intercorso carnale tra Maria e lo sposo), mentre presta orecchio alla figura di giovane alla sua destra, non identificata.
Non ci sono altri personaggi, in particolare i Magi; è difficile quindi interpretare questa rappresentazione come un’Epifania. Questo titolo in effetti si deve al fatto che l’opera è posta in correlazione con un "cartone dell’Epifania" di cui parla il Vasari nella sua Vita di Michelangelo.
Che cosa rappresenta, dunque, questa scena? Per curioso che possa sembrare, plausibili suggerimenti per una sua possibile interpretazione ci vengono da Leonardo da Vinci.
Com’è noto, pur non essendosi mai trovati in situazioni di diretta concorrenza, i due maggiori geni del Rinascimento italiano si odiavano a vicenda, arrivando alla miseria dell’insulto pubblico. Vasari riferisce di un incontro per le strade di Firenze in cui i due, mentre avrebbero avuto ottime ragioni per sorvolare sull’argomento, si insultano scambiandosi a vicenda davanti a testimoni infamanti accuse di pederastia; episodio che farebbe sorridere se non fosse troppo triste, rivelandoci i due grandi in un momento di umanità assai poco esaltante.
Ma è proprio nella Vergine delle Rocce di Leonardo, o, più precisamente, nel momento fiorentino della lunga gestazione di quest'opera che si nasconde, forse, la possibile chiave per l'interpretazione iconografica di quest'opera di Leonardo.




b) Il realismo nel Rinascimento del Nord: da Bosch a Bruegel


Il gusto per l’allegoria e l’immagine iniziatica che caratterizza il primo Rinascimento italiano ha corrispondenza nell’arte dell’Europa del Nord: Jheronimus Bosch (ca. 1450-1516), il maggior esponente dell’arte olandese fra Quattrocento e Cinquecento, crea come abbiamo visto, a partire da alcuni schemi iconografici tradizionali, principalmente il Giudizio finale e le Tentazioni di Sant’Antonio, composizioni sempre piu’ complesse sul tema del mondo degenerato, caduto in preda al disordine e alla follia, la cui comprensione da un certo momento in poi presuppone nel pubblico la conoscenza delle elaborazioni precedenti.
In un altro versante della sua produzione, tuttavia, forse sul finire della carriera (almeno secondo le più attendibili ricostruzioni, poiché nessuna opera è giunta datata,  e non è stato finora possibile stabilire alcun nesso cronologico sicuro), Bosch lascia da parte l’allegorismo irrealistico esplorare forme espressive più aderenti al vero, nelle quali il significato simbolico va reperito sotto le sembianze della realtà quotidiana.

*2. Bosch, Il Carro di Fieno, ante esterne: Il viandante
Madrid, Prado

*3. Bosch, Il viandante (”Il figliol prodigo”), due particolari.
Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen

*4. Pieter Bruegel il Vecchio, I ciechi, 1568
tempera su tela cm 85,5 x 154
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

L'opera si ispira a un ammonimento evangelico: "Lasciateli, sono ciechi, e guide di ciechi; ma, se un cieco ne guida un altro, tutti e due vanno a finire in un fosso" (Mt 15,14), ma trasformandolo in una tragedia ordinaria, in un angolo della campagna fiamminga.



c) Allegoria ed emblematica nel secolo d'oro dell'arte olandese


In conseguenza della Riforma protestante, che a partire dal 1517 influenzerà largamente la civiltà e i costumi, vengono abolite le immagini sacre nelle chiese dell’Europa del Nord.
 In Germania e nei Paesi Bassi, la produzione pittorica abbandona di conseguenza i temi sacri per oltre un secolo e mezzo,  per praticare i generi del ritratto, della scena urbana, degli interni, della natura morta, del paesaggio.
Questa fiorente produzione, a carattere in apparenza realistico, non spiega il suo intenso fascino e il suo senso di mistero se non si tengono in considerazione le premesse da cui nasce, ovvero che si tratta, in partenza,  di una trasformazione della pittura sacra. “Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc facie ad faciem”, afferma San Paolo, uno degli autori sacri piu’ attentamente considerati dai teologi della Riforma: “Ora vediamo attraverso lo specchio in un enigma, allora (e cioè nella vita eterna) vedremo Dio in volto”.
Rapportato alle arti figurative, questo può significare che il volto di Dio non va raffigurato direttamente poichè è ovunque intorno a noi, nascosto nell’apparenza delle cose, dalle più grandi alle più umili, senza distinzione.

Gli scenari di campagna di Ruysdael, con le sue distese di biade e i modesti casolari, le casette dell’anonima stradina di Vermeer, la vita minuscola di una zolla d’erba, e persino le lische e le bucce rimaste nei piatti alla fine di un banchetto,  diventano perciò misteriose allegorie sacre, delle quali il credente deve saper ritrovare il senso. Molte scene di genere olandesi del Seicento, in apparenza semplici e fedeli trascrizioni di vita quotidiana, contengono spesso nascoste allusioni all'emblematica morale in voga all'epoca e diffusa dalle stampe:


5. Gerard ter Borch, La caccia ai pidocchi (ca. 1623-53), ol./tav. 33,5 x 29 cm.
L'Aja, Mauritshuis

6. Purgat et ornat ("Pulisce ed orna"), emblema, dal libro Sinnepoppen di Romer Visscher (1614)12) Pieter Pietersz, Ritratto di Cornelis Schellinger, 1584, ol./tav., 68 x 51 cm.
L'Aja, Mauritshuis

7. "Elck zjin tjid" ("Ciascuno a suo tempo"), emblema, dal libro Sinnepoppen ("Fiori di significato") di Romer Visscher (1614)

*8. Pieter Saenredam, La chiesa di Sant’Odulfo ad Assenfeldt
Amsterdam, Rijksmuseum

*9.  Jan Vermeer, La stradina ("Het Straatje").
Amsterdam, Rijksmuseum

10. Vincent Van Gogh, Il riposo meridiano (da Millet), 1889-90.

olio su tela, 73 x 91 cm


Parigi, Musée d’Orsay


Bibliografia

R. ROMANO - A.TENENTI, Alle origini del mondo moderno (1350-1550) , Ed.it. Milano, Feltrinelli, 1967
G.VALLESE, Il tema della follia nell’arte di Bosch: iconografia e stile, “Paragone/Arte” n° 405, novembre 1983, pagg. 3-49
G.VALLESE, Follia e mondo alla rovescia nel Giardino delle Delizie di Bosch, “Paragone/Arte” n° 447, maggio 1987, pagg. 3-22
B. BROOS, Mauritshuis - Guide to the Royal Cabinet of Paintings, L'Aja, SDU Uitgeverij, 1988
S. SCHAMA, La cultura olandese dell'epoca d'oro, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1988
J.KOLDEWEIJ, P.VANDENBROECK, B. VERMET, Hieronymus Bosch: catalogo completo, trad. it. Rizzoli, 2001 (pubblicato in occasione della mostra a Rotterdam,  2001)
D. W. DRUICK, P. K. ZEGERS, Van Gogh e Gauguin : lo studio del sud, trad. it. Milano, Electa, 2002 (pubbl. in occasione di una mostra tenuta a Chicago nel 2001-2002 e a Amsterdam nel 2002).

G.VALLESE, Van Gogh, Milano, Giorgio Mondadori (alleg. a: “Arte” n° 352, dicembre 2002)

ELEMENTI DI ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA Leonardo, i 'Nodi' e l'Achademia

a) I Nodi e l’Achademia
I nodi, formati da complicati intrecci geometrici detti anche “cordelle alla damaschina”, compaiono in sei incisioni prodotte in ambiente milanese al principio del ‘500. Dürer li copiò in altrettante silografie, omettendo le iscrizioni.
Gli intagliatori delle sei incisioni non sono noti, ma il riferimento dell’invenzione a Leonardo stesso non è mai stato posto in discussione, dato che nel periodo milanese i nodi (o “vinci”, in italiano antico), divengono per l’artista una sorta di sigla, di emblema personale che egli usa dappertutto, nei disegni per gioielli, acconciature, accessori, e nella decorazione della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco. 
*1.- 6., I Nodi vinciani, incisioni a bulino.
Milano, Biblioteca Ambrosiana
7. Copia di Dürer da uno dei nodi vinciani, silografia.
*8. L’Androgino. Incisione a bulino di derivazione leonardesca.
Londra, British Museum
9. Tre else di spada, disegno
Milano, Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico, fol 366.
10. Leonardo da Vinci, Studi per la testa di Leda.
Windsor Castle, Royal Library, Inv 12516 
11. Leonardo da Vinci, Studi per la testa di Leda.
Windsor Castle, Royal Library, Inv 12518
Se il Vasari considerava i “nodi” leonardeschi semplici divertimenti, eseguiti dall’artista per dar prova del proprio virtuosismo, per l’iconografo moderno le sei incisioni sono oggetti del tutto seri, e molto complessi da un punto di vista iconografico. Anzitutto, presentano l’iscrizione “Achademia Leonardi Vinci”, ponendo il problema di una possibile “scuola”, un’accademia di belle arti ante litteram, con marcato accento sugli aspetti intellettuali e matematici della formazione dell’artista, che Leonardo avrebbe fondato a Milano, sotto gli auspici di Ludovico il Moro. 
Benché manchino testimonianze documentarie circa questa accademia leonardesca a Milano, che certamente dovette avere i caratteri del cenacolo amichevole più che quelli di una vera e propria scuola d’arte a carattere istituzionale, studi recenti si pronunciano a favore della sua esistenza. 
Essa anticiperebbe di oltre mezzo secolo la prima Accademia d’arte della storia (istituita da Giorgio Vasari a Firenze nel 1562), e seguirebbe di poco le accademie umanistiche a carattere filosofico, d’impronta neoplatonica, di cui fiorirono alla metà del ‘400, sempre a Firenze, i primi esempi. 
Esiste inoltre una settima incisione, anch’essa di formato circolare e corredata dall’iscrizione Achademia Leonardi Vinci, che presenta non una composizione geometrica ma una figura di profilo, nella quale gli studiosi concordano nel riconoscere il “divino androgino”, descritto da Platone come il tipo umano della specie più elevata. Quest’opera proverebbe dunque il collegamento fra l’Accademia vinciana di Milano e il pensiero platonico, cui le accademie si umanistiche fiorentine si ispiravano.
Per quanto riguarda le sei “rose” geometriche disegnate da Leonardo, si tratta di un motivo di derivazione islamica che all’epoca di Leonardo veniva applicato alla decorazione degli strumenti musicali, e in particolare del liuto, lo strumento a corde più comune del Rinascimento (Headlam Wells, 1981, vedi bibliografia).
In questi motivi islamici sopravvive una geometria intrisa di misticismo, di origine pitagorico-platonica, che mira a tradurre in immagine non figurativa le qualità e gli attributi di Dio (Baltrusaitis 1955, vedi bibliografia).
Non a caso simili “stelle” geometriche appaiono con insistenza nelle chiese a pianta centrale che così intensamente affascinano gli architetti del Rinascimento (Wittkower).
Il collegamento con il mondo degli strumenti nusicali, più precisamente con uno strumento di marcata derivazione araba, come il liuto, non è privo di significato, poichè l’umanesimo a Milano aveva un’intensa impregnazione musicale, a differenza di quello fiorentino, più orientato alle arti figurative. 
Sappiamo fra l’altro che l’incontro tra Leonardo e Ludovico il Moro avvenne sotto il segno della musica, con Leonardo, valente suonatore di lira (e dicitore di rime “all’improvviso”, accompagnate dal suono dello strumento), che dona al Moro una lira o viola da lui fabbricata “d’argento in parte, in forma d’un teschio di cavallo, cosa bizzarra e nuova”.
Secondo le riscoperte dottrine neoplatoniche, la musica riconcilia il microcosmo umano con il macrocosmo, e la segreta natura numerica dei rapporti armonici può essere studiata e impiegata terapeuticamente, oppure per rendere belle le proporzioni di una figura o di un edificio. 
*b) La Sala delle Asse nel Castello Sforzesco a Milano. 
La creazione più famosa di Leonardo al Castello è il grande affresco sulla volta della Sala "delle Asse" (detta così dalle assi o tavole di legno che rivestivano la parte inferiore delle pareti). Qui l’artista affrescò un finto pergolato, formato dai rami fioriti di sedici alberi i cui rami intrecciati formano l'emblema vinciano del nodo, che racchiude al centro le insegne araldiche del committente, Ludovico il Moro signore di Milano, e della sua sposa. Alle fronde s’intreccia un cordone dorato, in armoniose volute; l’opera fu infatti eseguita in occasione delle nozze di Ludovico il Moro con Beatrice d’Este, e si presume che sia stata iniziata nel 1498.
( visita virtuale: http://milan.arounder.com/it/castello_sforzesco/IT000007286.html )
Bibliografia
Le sei incisioni dei “nodi” vinciani:
C.ALBERICI (a cura di), Leonardo e l’incisione, Cat. della mostra al Castello Sforzesco, Milano, Electa,  1984

Le “rose” degli strumenti musicali e il loro rapporto con le teorie pitagorico-platoniche del numero, dell’armonia, e della terapia mediante la musica:
R. HEADLAM WILLIS, Number Symbolism in the Renaissance Lute Rose, “Early  Music” I, 1981, pagg. 32-42 

I “nodi” di Leonardo e la loro radice nella cultura islamica:
J. BALTRUSAITIS, Il Medioevo fantastico (1955), trad. it. Milano, Adelphi, 1973, cap. 3.2

La questione dell’Accademia milanese di Leonardo:

A.PEVSNER, Le Accademie d’arte (1940), trad.it. Torino, Einaudi, 1982
http://www.firenze-online.com/visitare/informazioni-firenze.php?id=176 



a) I Nodi e l’Achademia
I nodi, formati da complicati intrecci geometrici detti anche “cordelle alla damaschina”, compaiono in sei incisioni prodotte in ambiente milanese al principio del ‘500. Dürer li copiò in altrettante silografie, omettendo le iscrizioni.
Gli intagliatori delle sei incisioni non sono noti, ma il riferimento dell’invenzione a Leonardo stesso non è mai stato posto in discussione, dato che nel periodo milanese i nodi (o “vinci”, in italiano antico), divengono per l’artista una sorta di sigla, di emblema personale che egli usa dappertutto, nei disegni per gioielli, acconciature, accessori, e nella decorazione della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco. 
*1.- 6., I Nodi vinciani, incisioni a bulino.
Milano, Biblioteca Ambrosiana
7. Copia di Dürer da uno dei nodi vinciani, silografia.
*8. L’Androgino. Incisione a bulino di derivazione leonardesca.
Londra, British Museum
9. Tre else di spada, disegno
Milano, Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico, fol 366.
10. Leonardo da Vinci, Studi per la testa di Leda.
Windsor Castle, Royal Library, Inv 12516 
11. Leonardo da Vinci, Studi per la testa di Leda.
Windsor Castle, Royal Library, Inv 12518
Se il Vasari considerava i “nodi” leonardeschi semplici divertimenti, eseguiti dall’artista per dar prova del proprio virtuosismo, per l’iconografo moderno le sei incisioni sono oggetti del tutto seri, e molto complessi da un punto di vista iconografico. Anzitutto, presentano l’iscrizione “Achademia Leonardi Vinci”, ponendo il problema di una possibile “scuola”, un’accademia di belle arti ante litteram, con marcato accento sugli aspetti intellettuali e matematici della formazione dell’artista, che Leonardo avrebbe fondato a Milano, sotto gli auspici di Ludovico il Moro. 
Benché manchino testimonianze documentarie circa questa accademia leonardesca a Milano, che certamente dovette avere i caratteri del cenacolo amichevole più che quelli di una vera e propria scuola d’arte a carattere istituzionale, studi recenti si pronunciano a favore della sua esistenza. 
Essa anticiperebbe di oltre mezzo secolo la prima Accademia d’arte della storia (istituita da Giorgio Vasari a Firenze nel 1562), e seguirebbe di poco le accademie umanistiche a carattere filosofico, d’impronta neoplatonica, di cui fiorirono alla metà del ‘400, sempre a Firenze, i primi esempi. 
Esiste inoltre una settima incisione, anch’essa di formato circolare e corredata dall’iscrizione Achademia Leonardi Vinci, che presenta non una composizione geometrica ma una figura di profilo, nella quale gli studiosi concordano nel riconoscere il “divino androgino”, descritto da Platone come il tipo umano della specie più elevata. Quest’opera proverebbe dunque il collegamento fra l’Accademia vinciana di Milano e il pensiero platonico, cui le accademie si umanistiche fiorentine si ispiravano.
Per quanto riguarda le sei “rose” geometriche disegnate da Leonardo, si tratta di un motivo di derivazione islamica che all’epoca di Leonardo veniva applicato alla decorazione degli strumenti musicali, e in particolare del liuto, lo strumento a corde più comune del Rinascimento (Headlam Wells, 1981, vedi bibliografia).
In questi motivi islamici sopravvive una geometria intrisa di misticismo, di origine pitagorico-platonica, che mira a tradurre in immagine non figurativa le qualità e gli attributi di Dio (Baltrusaitis 1955, vedi bibliografia).
Non a caso simili “stelle” geometriche appaiono con insistenza nelle chiese a pianta centrale che così intensamente affascinano gli architetti del Rinascimento (Wittkower).
Il collegamento con il mondo degli strumenti nusicali, più precisamente con uno strumento di marcata derivazione araba, come il liuto, non è privo di significato, poichè l’umanesimo a Milano aveva un’intensa impregnazione musicale, a differenza di quello fiorentino, più orientato alle arti figurative. 
Sappiamo fra l’altro che l’incontro tra Leonardo e Ludovico il Moro avvenne sotto il segno della musica, con Leonardo, valente suonatore di lira (e dicitore di rime “all’improvviso”, accompagnate dal suono dello strumento), che dona al Moro una lira o viola da lui fabbricata “d’argento in parte, in forma d’un teschio di cavallo, cosa bizzarra e nuova”.
Secondo le riscoperte dottrine neoplatoniche, la musica riconcilia il microcosmo umano con il macrocosmo, e la segreta natura numerica dei rapporti armonici può essere studiata e impiegata terapeuticamente, oppure per rendere belle le proporzioni di una figura o di un edificio. 
*b) La Sala delle Asse nel Castello Sforzesco a Milano. 
La creazione più famosa di Leonardo al Castello è il grande affresco sulla volta della Sala "delle Asse" (detta così dalle assi o tavole di legno che rivestivano la parte inferiore delle pareti). Qui l’artista affrescò un finto pergolato, formato dai rami fioriti di sedici alberi i cui rami intrecciati formano l'emblema vinciano del nodo, che racchiude al centro le insegne araldiche del committente, Ludovico il Moro signore di Milano, e della sua sposa. Alle fronde s’intreccia un cordone dorato, in armoniose volute; l’opera fu infatti eseguita in occasione delle nozze di Ludovico il Moro con Beatrice d’Este, e si presume che sia stata iniziata nel 1498.
( visita virtuale: http://milan.arounder.com/it/castello_sforzesco/IT000007286.html )
Bibliografia
Le sei incisioni dei “nodi” vinciani:
C.ALBERICI (a cura di), Leonardo e l’incisione, Cat. della mostra al Castello Sforzesco, Milano, Electa,  1984

Le “rose” degli strumenti musicali e il loro rapporto con le teorie pitagorico-platoniche del numero, dell’armonia, e della terapia mediante la musica:
R. HEADLAM WILLIS, Number Symbolism in the Renaissance Lute Rose, “Early  Music” I, 1981, pagg. 32-42 

I “nodi” di Leonardo e la loro radice nella cultura islamica:
J. BALTRUSAITIS, Il Medioevo fantastico (1955), trad. it. Milano, Adelphi, 1973, cap. 3.2

La questione dell’Accademia milanese di Leonardo:

A.PEVSNER, Le Accademie d’arte (1940), trad.it. Torino, Einaudi, 1982
http://www.firenze-online.com/visitare/informazioni-firenze.php?id=176